Quale fine vita per il Covid-19?
Ospedale-Covid, Camerino |
Però il coronavirus ci sollecita non soltanto delle domande sulla vita, ma soprattutto ci fa riflettere sulla morte, perché ce la rende presente e molto a portata di mano, non come una realtà virtuale, ma come una minaccia reale, per quanto invisibile ad occhio umano, che ci incute paura, a volte ci terrorizza. Sì, perché per quanto brutta ogni morte sia, la morte da Covid-19 lo è ancora di più. Come muore chi soccombe al malefico virus? Praticamente lontano dagli affetti dei propri cari, isolato in reparti ospedalieri dove chi si prende cura di lui si scherma il più possibile con dispositivi di protezione per non restare contagiato. Una morte disumana, non solo perché il morente rimane lucido sentendosi come affogare per mancanza di respiro, ma perché non può aver nessun contatto umano e affettivo che possa lenire la sua sofferenza e accompagnarlo all'ultima tappa della vita terrena. Anche dal punto di vista spirituale, non è bello morire da Covid-19, in quanto sembra che nei reparti ospedalieri Covid neanche i cappellani possano entrare. Quando parte l'ambulanza per un ricovero Covid la persona viene letteralmente strappata via dai suoi affetti e sa che quell'ultimo sguardo alla sua casa, ai suoi cari è tutto ciò che gli resterà come viatico familiare verso la guarigione o verso la morte.
In conclusione, che si posticipi un convegno sul fine vita non è certo un dramma, ma il fine vita Covid lo è sicuramente. Allora mi chiedo se una persona malata di coronavirus manifestatosi nell'anno 2019 (Corona Virus Disease 19 = Covid-19) non abbia il diritto di essere assistita anche umanamente e spiritualmente, oltre che medicalmente. Ma come prendersi cura in maniera globale di una persona malata di coronavirus? Non ho una riposta certa a questa domanda. Ma è una domanda che interroga la mia coscienza di uomo e di sacerdote, che attualmente deve far fronte a un'emergenza sanitaria familiare nel contesto di quella pandemica. Infatti mi trovo in una sorta di ospedale domestico con due genitori malati cronici di patologie irreversibili (babbo oncologico e mamma con sclerosi multipla), in cui oltre a fungere da figlio (unico), devo anche svolgere il mio compito di sacerdote, badante (una delle due in questi giorni è scappata per la paura di essere contagiata) e anche un po' infermiere (malgrado il servizio ADI attivato). Mi manca però l'Hospice ospedaliero di Fabriano (sopratutto il rapporto con il personale medico e infermieristico che vi lavora) dove stavo prestando servizio fino a qualche giorno fa, e dove spero prima o poi di ritornare a svolgere il mio ruolo di cappellano. A proposito, è paradossale che proprio gli Hospice, concepiti come luoghi sanitari ideali per gli ammalati terminali in cui si praticano le cure palliative, non siano tecnicamente adeguati per i pazienti Covid. Comunque, dall'esperienza di un medico che attualmente è in prima linea nell'Ospedale "Sacco" di Milano (il dott. Amedeo Capetti) si evince che il malato Covid sviluppa una grande resilienza che lo porta non a lamentarsi, ma a stabilire un rapporto umano con il medico che lo ha in cura. Questo dimostra ancora una volta di più che la relazione terapeutica medico - malato è estremamente importante e che quindi ogni relazione lo è. Allora come stabilire una adeguata relazione terapeutica nelle sue varie dimensioni (medica, psicologica e spirituale) con una persona malata Covid? Chiaro, ora in tempo di emergenza sanitaria in cui a malapena ci sono dispositivi di protezione individuale per gli operatori sanitari pensare di darli anche ai cappellani ospedalieri è inimmaginabile, ma dovrà pur passare quest'emergenza prima o poi. Intanto continuiamo a pregare in questo tempo di fragilità per tutti gli ammalati Covid e gli operatori sanitari che si prendono cura di loro.
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